in mostra dal 3 al’11 agosto 2016
“I Giochi dei Bambini – Amazzoni” è il titolo della mostra di Antonella Dargenio.
Questa è la storia di un viaggio che ripercorre, attraverso gli scatti istantanei delle diverse umanità, quel viaggio ideale che ognuno di noi compie dietro le palpebre socchiuse, in modo interiore, immaginifico, sommerso, spaziando attraverso mondi e stralci di vita che sono altrettanti luoghi visitati soltanto in sogno. Io questi viaggi li ho compiuti. Ad accompagnarmi costantemente non è solo il desiderio velleitario di allontanarmi dalla “mia” Terra e spostare lo sguardo su altri orizzonti; bensì il preciso intento di arrivare, attraverso i miei viaggi, al centro della terra stessa, in quel tondo primigenio che tutti ci affratella. Di ogni luogo fotografo la ricchezza, i sorrisi, il patrimonio umano, ma anche le piaghe, il dolore, la povertà, l’ignoranza e i limiti del finito. Se una qualche pedagogia nel viaggio e del viaggio esiste, la mia è quella di una fratellanza altra, di una matrice accomunante rispetto alla quale ogni sguardo si ferma e ripercorre, a sua volta, il medesimo viaggio rimanendo incantato o devastato dagli stessi interrogativi che hanno pervaso il mio animo di nomade reporter.
Non scatto per un semplice gusto estetico, non sono attratta dalla bellezza comunemente intesa. Il mio scatto è un riconoscimento del mio sguardo dentro un altro sguardo, è esattamente quell’attrazione, quell’”A-pelle” che scatta quando, per la prima volta, spalanchiamo lo sguardo dentro gli occhi e nel cuore di chi, misteriosamente, ci rispecchia; ci rivela, ci completa, sapendo che solo immergendoci totalmente in esso ci sentiremo restituiti a noi stessi, tutti interi.
Non so se è iniziato prima il mio desiderio di raccontare storie, o quello di cominciare a viaggiare. Per certo so che, al crocevia dei sogni realizzati, questi “bi-sogni” si sono incontrati e son diventati, per me, la stessa inscindibile cosa! Sono partita per raccontare, scatto per raccontare e il viaggio, così come il racconto, non si estingue con un visto di ritorno e non comincia con un visto d’andata. Sono in me dal principio! Come nati con me, insieme a me. Come se non ci fosse mai stato, per me, altro modo di vivere. E tutto si fonde in un perfetto tondo universale in cui mi sento ricongiunta al mondo. Primordiale. Viscerale. Immemore di tempo ma carico di storia. Ho visto paesaggi che erano mondi, mondi che erano sorrisi, sorrisi che raccontavano storie, storie che si mescolavano ad altre storie… Ho visto. E ho sentito che gli altri, da questa parte di mondo che non riuscivo a mettere in valigia, dovevano vedere con me. Che certa bellezza non poteva essere esclusa dai loro sguardi. Che certa realtà non poteva essere ignorata. Che certi giochi dimenticati di bimbi potevano e dovevano ricondurci all’essenza di un’esistenza che tanto Occidente ha dimenticato.
La narrazione fotografica parte con il mio primo viaggio in Perù. Mi sono spinta fino a Pomabamba, un posto quasi dimenticato dal mondo, aldilà delle Ande. Un posto in cui tutto sembra fermo e i segni della civiltà non sono quasi per nulla tangibili; in cui, però, la civiltà intesa come esordio della vita rimane intatta nella sua più autentica genuinità. Questa genuinità, quest’autenticità l’ho ritrovata nello sguardo di certi bambini e di certi anziani come se, magicamente, il filo di tutta l’esistenza si prendesse per mano. Come se quel bambino, nato alla vita, si ricongiungesse con la mano dell’anziano che diventerà mentre, la natura, intatta, sta a guardare, sta ferma solo a farsi abitare. Nel mentre ho camminato, semplicemente, per le strade che erano strade di un Perù incontaminato, dove mi sono persa e rincontrata negli occhi dei passanti, degli stanziali e mi sono imbattuta contro certi muri bianchi animati da colori semplici e poveri, che solo chi è ricco di altra ricchezza può dipingere.
In tutto questo rimaneva intatto il Perù della storia. Machu Picchu. Una città non solo preistorica ma arcaica. Sopravvissuta come segno dei primi uomini in questa nuova era. Il Perù guerriero, fiero, perso, svettante al di là di ogni logica, contro il cielo.
E poi… Poi ho attraversato le favelas. La favelas il cui nome, in qualche modo, mi ricorda la favola. Una favola povera che, non solo non ha bisogno di ricchezza, ma la cui unica ricchezza sono gli uomini e le donne, gli anziani e ancora i bambini che parlano senza dire nulla. Come quella favola che ci racconta mentre scorre e non ha bisogno di altre parole. La favola di Lima. E’, invece, tutt’altra favola quella raccontata dalle favelas Brasiliane. La favola di bambini smarriti nell’inganno del crack. Di uomini e donne che hanno continuato a perdersi nel viaggio del crack per dimenticarsi la fatica della sopravvivenza quotidiana, in un mondo che ha continuato a respingerli.
Ma lo sguardo, mai pago, prosegue affamato il suo racconto. Quello dei luoghi e degli spazi, di un mondo attraversato lungo i volti e gli spazi quotidiani. Il Brasile su certe panchine. Il Brasile degli incontri. Il Brasile giocoso, festante negli sguardi dei bimbi. Il Brasile fermo. Il Brasile in movimento. Il Brasile che è arrivato anche a noi, in quest’Occidente. Il Brasile delle grandi passioni: del calcio, dell’allegria, delle alture e delle discese.
Poi, inevitabilmente, sono arrivata a perdermi nella foresta. Lì dove tutto è tribù. La tribù di ogni luogo, di ogni viaggio, di ogni spazio. La tribù che è l’anima di ogni tempo. Selvaggia. Alla fonte della negritude dell’umanità, là, dove m’interessava cogliere gli albori di un’infanzia quasi dimenticata. Primordiale. Quell’infanzia che, a prescindere da ogni regime oggettivamente temporale, rimane nel cuore e nelle radici dell’animo umano.
L’esigenza del viaggio è in fondo una pretesa di Verità. Assoluta.
Non potevo prescindere, quindi, dal tentativo di raccontarne un’altra sulla Siria. L’altra verità di una Siria altra.
La Siria dei bambini. La Siria delle mamme. Quella dei giochi, nonostante tutto quello che le accade intorno. Una Siria che, malgrado ogni guerra, continua ad abitare la Siria. La Siria dei siriani che da quel posto non vogliono fuggire, ma sono costretti a farlo. Così, ho pensato alla “casa”. Al senso dell’abitare. Ho sentito che dovevo tornare per raccontare la Mia di Italia.
L’Italia della quale non potevo raccontare un viaggio o, semplicemente, non mi sarebbe bastato. Volevo raccontare il senso di quello che, dalla nostra terra, mi viene restituito. Ho provato ad analizzare questo senso ponendo la donna come sintesi delle diverse umanità in quanto matrice di quell’umanità stessa.
L’Italia in cui crediamo di essere individui liberi e abbiamo, invece, ancora bisogno di nasconderci, di difenderci, di mascherarci per non essere giudicati. In cui amiamo senza avere la libertà di farlo veramente. L’Italia in cui, ansiosi di dire, dietro il velo, ancora continuiamo a nascondere le nostre verità e, ahimè, questo è quello che la mia terra mi restituisce. Uno sguardo all’ombra di altri sguardi. Uno sguardo ansioso di luce che non vede la luce. Uno sguardo oltre le palpebre, all’interno, dentro, anziché all’orizzonte!
Tutto questo il dicibile intorno ai miei viaggi sull’imprescindibile umano. Il prescindibile e l’indicibile resteranno, invece, nel cuore di ogni spettatore.
Biografia
Antonella Dargenio ha 32 anni e viaggia da quando ne ha 12.
È interprete conosce 6 lingue inglese, francese, spagnolo, portoghese e tedesco.
Oggi lavora nel campo della moda con la qualifica di: Footwear sales manager and product developper.
Scatta da quando aveva 25 anni. Da quel momento fotograficamente ha realizzato vari lavori.
Premi:
2016
Menzione d’onore fotografia di reportage Fiof International Photography Orvieto
Primo, secondo e terzo premio Research Photography Fiof International Photography Orvieto