in mostra dal 3 all’11 agosto 2016
“Alienazione Urbana” è il titolo della mostra di Rinaldo Alvisi.
“È ormai da qualche tempo che rifletto sulle fotografie di Rinaldo Alvisi. Senza esagerare, mi piace dire che le sue foto sono tra le più lucide e originali di quelle che ho visto. Sarebbe interessante ricercare le motivazioni, o gli ispiratori. Siano essi famosi, studiati, oppure misconosciuti. Siano essi non persone, ma anche cose.
Un artista – che sia scrittore, o musicista, pittore, regista o, come nel nostro caso, un fotografo – è sempre ispirato da qualcosa. Ha bisogno di qualcosa per destarsi, per mettersi in moto. Un esempio tratto dal mondo animale può essere utile: come la zecca, che reagisce fondamentalmente a pochi elementi (odore, calore e poco altro), l’artista possiede un proprio territorio, un ambiente senza il quale la sua attività non avrebbe senso. Ma la prima differenza, rispetto all’animale, è che questo ambiente (artistico) non è predefinito: deve essere creato. In secondo luogo, l’artista crea un ambiente, un territorio, non al fine di sopravvivere o nutrirsi, ma soltanto per esprimersi. In terzo luogo, l’animale non crea, ma utilizza i mezzi che trova nel territorio. È per questo che l’essere umano, a differenza dell’animale nel suo ambiente, vive in un mondo.
Durante una conversazione sulla fotografia, ho chiesto a Rinaldo quali fossero i suoi maestri, da chi avesse imparato quel mestiere – oggi così invalso, o peggio “naturale”; eppure ancora così enigmatico, inquietante e, soprattutto, difficile, ascosa, come se i suoi segreti fossero rivelati soltanto a pochi eletti – insomma, Rinaldo, com’è che sei diventato fotografo? La risposta è arrivata subito. «I miei maestri sono André Breton e Arthur Rimbaud».
Sorpreso, ho ripetuto la domanda, sottolineando una volta di più la parola ‘fotografia’. Un sospiro, probabilmente di impazienza. Una breve pausa. Stessa risposta. Sì, va bene Rinaldo, ho capito, ma quelli sono poeti, e noi stiamo parlando di fotografia. Risata. «E che è colpa mia se ho imparato a fare fotografie attraverso i poeti?». Sono rimasto alcuni giorni a riflettere su questa risposta. Svanito lo stupore, ho persino riletto Rimbaud e Breton, cercandovi degli indizi, delle tracce. Come un esperto investigatore, ho preso appunti, ho chiesto informazioni, ho fatto interrogatori, perquisizioni, inquisizioni. E niente. Niente che mi potesse aiutare davvero. Così, di nuovo in mare aperto, sono tornato a quella strana risposta: fare fotografie attraverso i poeti…
All’improvviso ho capito qualcosa. Vale meno di una confessione piena, ma più di qualsiasi altra prova. La soluzione è in quella parolina insospettata: attraverso. Rinaldo non ha detto grazie a o a causa di. Ha detto proprio «attraverso». Come in ogni poliziesco che si rispetti, l’assassino è sempre quello che dà meno nell’occhio.
Servendoci di due grandi filosofi francesi del secolo scorso, Gilles Deleuze e Félix Guattari, potremmo abbandonare i sofisticati territori della critica, dimenticare, anche se per un attimo, cultura, fotografie, libri, attraversare ancora un altro ambito e giungere alla botanica; e paragonare così l’arte a un rizoma:
Un rizoma, come stelo sotterraneo, si distingue assolutamente dalle radici e dalle radicelle. I bulbi, i tuberi sono rizomi. Le piante a radice o radicella possono essere rizomorfe sotto altri aspetti […]. Un rizoma non incomincia e non finisce, è sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo. Perché il mezzo non è affatto una media, al contrario è il luogo dove le cose prendono velocità. (DELEUZE- GUATTARI, Mille piani).
Léon Fidelius, uno scrittore – di cui purtroppo non è stato pubblicato ancora nulla – e che ho la fortuna di conoscere da qualche anno, recentemente è venuto a trovarmi. È uno scrittore che definirei “d’avanguardia”, ma so che Léon storcerebbe il naso e non apprezzerebbe molto. È un uomo di cinquant’anni, ha all’attivo una vita piuttosto avventurosa e un solo libro (dallo strano titolo, Il libro degli inventori) scritto ormai molto tempo fa. Non è un vero e proprio romanzo, ma un insieme di storie che ruotano attorno a invenzioni immaginarie: invenzioni mai inventate. Una delle più interessanti è contenuta nel capitolo intitolato La macchina delle sensazioni. A lui piace definirsi come uno scrittore greco, della scuola di Pitagora, o ancora, più in particolare, uno scrittore di cose scientifiche. (Di scienza però sa poco o nulla). Dunque, arriviamo al punto e non divaghiamo. Léon è arrivato da me a notte fonda. Abbiamo mangiato, bevuto, parlato delle nostre rispettive novità, come vanno le cose, un viaggio, un libro da consigliare, ecc. Poi Léon ha visto una fotografia di Rinaldo. Una di quelle di Stoccolma, a colori. Io preferisco quelle che Rinaldo fa in bianco e nero e, per di più, non mi ero mai soffermato su quella foto. Léon tossiva, non smetteva di guardarla e tossiva. Tossisce sempre perché, secondo la sua stessa ammissione, fuma «come fumerebbe un turco che soffre d’amore». Poi, in un attimo in cui il suo corpo sembrava acquietarsi e i violenti scossoni dal petto diminuire, sempre guardando la foto ha detto: «Vedi, quello che ho scritto, le mie invenzioni mai inventate… Questa foto è appunto un’altra invenzione da aggiungere al corredo. Esiste perché non esiste». Ho chiesto cosa volesse dire. Léon si è messo a ridere. Ha detto molte cose che non ricordo. Trascrivo quelle che ho capito, e che per me sono le più significative:
«Rinaldo cerca qualcosa, ma la cerca per crearla. Movimento paradossale. I fisici parlerebbero di mondi paralleli, o delle stringhe… Non importa. Logicamente, non avrebbe alcun significato: non secondo la logica classica. Ciò che la logica classica rifugge come il suo peggior incubo è appunto il paradosso. Il famoso principio di non-contraddizione è una fotografia fedele della situazione dell’animale umano che vive in un mondo. La vera arte funziona così. Nasce nel mezzo, dal mezzo».
Ma in questo modo stiamo complicando le cose. L’indagatore, prima o poi, deve arrendersi. Il problema è interno all’indagine stessa: nonostante il segreto sia stato rivelato, il detective non sa raccapezzarsi. La scena del delitto viene inquinata da impronte di altri. Non resta che terminare il rapporto.
Le opere di Rinaldo Alvisi riescono a realizzare qualcosa che soltanto l’attività artistica è in grado di fare: conservare una sensazione… creata dallo stesso gesto di conservazione. Cristalli di tempo. Sensazioni. Forse qualche regista dovrebbe dare un’occhiata a queste foto. Con le dovute precauzioni: correrebbe il rischio di imparare qualcosa sul cinema, kinema: ciò che i Greci intendevano per ‘movimento’. Ecco, sarebbe un altro ambiente da segnare, un altro territorio conquistato.
Attraversando ancora un altro piano, fate attenzione alla strada e alla selva, guardate queste fotografie, invenzioni, prototipi – e per favore non chiedeteci di fermarci su un piano solo.”
Francesco Lodato
Biografia
Rinaldo Alvisi nasce a Barletta e vive a Trani. Si laurea in giurisprudenza. Comincia a viaggiare per l’Europa sin dall’età di 14 anni e a 25 anni vola negli Stati Uniti. Si occupa di fotografia e di cultura fotografica dall’età di 15 anni (visita la prima mostra fotografica a 16 anni a Londra). Le prime stampe in camera oscura sempre a 15 anni. In questo momento, ricopre, con grande soddisfazione e piacere, il ruolo di direttore del comitato scientifico del Fiof. Realizza foto di “street photography”. Esplorando le strade delle città, tenta di cogliere gli aspetti surreali che emergono dal quotidiano. Si sforza di evidenziare e mettere in relazione contrasti o incroci geometrici, ombre, luci, colori, tentando, ancora, di far diventare il colore stesso protagonista, insieme alle coincidenze surreali (secondo l’insegnamento dei Andrè Breton, che del surrealismo è il padre. Le sue foto non sono frutto di manipolazione in post-produzione. Con la Nikon impostata su “colori saturi”, espone per le alte luci, come si faceva un tempo con le diapositive (al più interviene solo sul cursore della luminosità).